Nascoste tra campi di grano e casolari, si trovano le uniche catacombe cristiane in Umbria, costruite probabilmente dalla comunità cristiana del vicus, che si sviluppò molto presto (la leggenda agiografica di San Brizio indica il I-II secolo) e che fu senz’altro molto numerosa (nella Catacomba sono state individuate oltre 300 sepolture). Dal 1948 il nome delle catacombe è legato alla memoria di San Faustino; proprio in quell’anno infatti vennero ritrovate, nella abbazia omonima poco distante da qui, le sue ossa. Le catacombe, furono in parte interrate, dopo l’abbandono di questo tratto della Flaminia, e rimasero sconosciute fino al ‘600; sappiamo da una lettera del nobile Giuseppe Mattei, di Todi, datata 1691, che il luogo viene nominato come “grotta traiana”, e la sua descrizione è alquanto suggestiva: “Si entra tra le fauci di un grande scoglio di travertino, bisognando alquanto curvarsi e portarsi anco il lume,perché si va al buio. Dentro, dopo che si è discesi, si trovano tre strade sotterranee tutte scavate con lo scalpello”…
Successivamente su questo luogo cadde nuovamente il silenzio fino al 1900 quando si tornò a parlare delle catacombe al Secondo Congresso di Archeologia Cristiana; l’importanza del sito emergerà grazie all’archeologo Giuseppe Sordini che lo indicherà come primo ed unico cimitero in Umbria. Nel 1940 iniziarono finalmente i lavori di scavo per recuperare il cimitero, interrotti solo dalla Seconda Guerra Mondiale, quando la catacomba fu utilizzata come rifugio antiaereo dagli abitanti della zona. La catacomba non è ha le dimensioni delle ben più note catacombe cristiane di Roma, ma presenta comunque una struttura articolata; è composta da un corridoio principale discendente, lungo circa 25 metri ed alto fino a 4 metri; anticamente vi si accedeva con una ripida scala scavata nella roccia, oggi molto consumata e nascosta sotto la moderna scala di metallo. Dal corridoio centrale si dipartono simmetricamente quattro cunicoli laterali di diversa lunghezza. Le pareti dei cunicoli presentano file di loculi sovrapposti, di varie dimensioni, regolati sul corpo che vi si inumava. Si possono anche notare dei piccoli loculi, destinati alle sepolture dei bambini; molte sepolture sono chiuse da lastre di marmo o tegoloni di terracotta; molte tombe, dette formae, sono scavate anche nel terreno. Numerosi i graffiti con i simboli della croce, della palma e del pesce, legati alla figura di Cristo. Interessante un sarcofago scolpito a forma di toro che ha fatto avanzare l’ipotesi di un luogo dedicato al culto di Mitra, poi adattato a cimitero cristiano. Pochi i reperti archeologici ritrovati: singolare l’assenza di iscrizioni, attribuibile alla analfabetizzazione degli abitanti poiché si tratta di un ipogeo di campagna. Attigua alla catacomba è stata rinvenuta, nel 1997, grazie ai lavori avviati dalla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, e condotti dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Umbria, una piccola basilica, con orientamento ad est, pianta rettangolare ed abside semicircolare. Un edificio, probabilmente connesso alla vicina catacomba, e occupato da 19 sepolture di diverso tipo, scavate direttamente nella roccia; tra queste interessante anche la presenza di una tomba monumentale, con arcosolio in muratura, situata in prossimità dell’area absidale. I reperti ritrovati, lucerne di fattura grossolana, frammenti di ceramica e monete, sono dello stesso periodo di quelli ritrovati nella catacomba; testimonianza quindi della contemporaneità del cimitero ipogeo e della soprastante basilica. La presenza di tale complesso dimostra da un lato la precocità della diffusione del culto cristiano nell’area martana, dall’altro sottolinea il mantenimento di una notevole concentrazione demografica, sia pure di livelli socialmente modesti in tutta la zona. La catacomba fu ovviamente dimenticata quando questo tratto della via consolare perse di importanza, e fu gradatamente interrata dalle alluvioni rovinose del Naja. Solo nel 1600 si ebbe notizia della grotta Traiana, così detta o dal nome della locale famiglia Traia,o perché usata da Traiano quale via militare sotterranea; successivamente su questo luogo cadde il silenzio fino al 1900 quando si tornò a parlare delle catacombe al Secondo Congresso di Archeologia Cristiana.
Curiosità: Sul colle che sovrasta la catacomba si trovano i resti del basamento di un tempio pagano costruito con grossi blocchi squadrati, sul quale è addossata una moderna casa colonica. Nel secolo XIII il sito è documentato come fortilizio, con chiesa dedicata a Sant’Angelo, appartenente alla nobile famiglia dei Monticastri dalla quale discese fra Gian Bernardino Monticastri che, secondo alcune fonti storiche, avrebbe partecipato al primo viaggio di Cristoforo Colombo verso la scoperta del nuovo mondo. Si conserva, murata nella parete anche un’iscrizione che racconta la storia di questo personaggio.
Dolina è una parola di origine slovena e significa semplicemente valle. Dato che l'interesse per i fenomeni carsici ed anzi per lo stesso carsismo si è sviluppato a partire dai territori sloveni, la terminologia internazionale ha fatto proprio questo termine per definire più precisamente una valle carsica, cioè una depressione tipica del terreno modellato in varie fogge da fenomeni di carsismo. Una dolina è una conca chiusa, un bacino che si riempirebbe d'acqua originando un laghetto se le pareti ed il fondo fossero impermeabili; invece, di solito, l'acqua viene assorbita attraverso vie sotterranee. Formatasi dall’azione erosiva delle acque meteoriche la dolina carsica, di forma ellittica, misura 250-300 m di diametro e circa 20 di profondità. Le stratificazioni sono visibili e ben definite e quel che più conta, il luogo dove si trova la dolina è di grande interesse geologico.
Il castelliere (o castellare) è un piccolo insediamento, o villaggio, fortificato protostorico (età del bronzo e del ferro), sorto in genere in posizione elevata facilmente difendibile, in cui una situazione difensiva naturale veniva sfruttata e rafforzata dall'opera dell'uomo. Le fortificazioni sono in genere costituite da aggeri e palizzate di legno e sono per lo più, ma non sempre, a pianta circolare. Al villaggio fortificato sono a volte associate necropoli esterne, anticamente ad inumazione con il defunto racchiuso entro cassette costituite da lastre pietrose, impreziosite da vasi e martelli. Nell'età del ferro, invece, le necropoli sono ad incinerazione ed i reperti sono più vasti, comprendenti ossuari, anelloni, ossa di cervo, oggetti metallici. Spesso le loro ubicazioni ben difendibili sono state riutilizzate sia ai tempi degli antichi romani, sia durante il Medioevo. I castellieri caratterizzano la cosidetta cultura dei castellieri, sviluppatasi in Istria e nelle zone limitrofe (Venezia Giulia e Friuli) tra il XV e il III secolo a.C. Altri castellieri piuttosto noti e studiati in Italia, si trovano in Umbria, in particolare negli altopiani dell'appennino umbro-marchigiano. Fra i Castellieri presenti nel territorio ci sono da annoverare quelli di Monte Il Cerchio, Monte Martano, San Pietro in Monte, Monte Schignano e M. Capoccia Pelata.
I Monti Martani :La catena dei monti Martani si trova al centro dell'Umbria e si estende, con un andamento regolare da sud a nord, per circa 45 chilometri, tra le province di Terni e di Perugia.
È delimitato ad est dalla Valle Umbra e dalla Valserra; ad ovest dalla valle del fiume Tevere e da quella del Naia nella parte meridionale; a sud dalla Conca Ternana con il fiume Nera. La catena dei Martani è circondata da città e da centri storici importanti. A Nord Montefalco e Foligno, a Est Spoleto, a Ovest Todi, Acquasparta, Massa Martana e Sangemini, a Sud Terni. Numerose sono anche le tracce dell'antichità più remota e le aree archeologiche. La più importante è quella di Carsulae o i resti archeologici di Sant'Erasmo sul monte Torre Maggiore.
Le cime dei Martani sono perlopiù arrotondate e coperte da prati. Le più elevate sono:
Monte Torre Maggiore (1.121 m); Monte Martano (1.094 m); Monte Forzano (1.086 m); Monte Torricella (1.054 m); Capoccia Pelata (1.054 m); Cima Panco (1.013 m).
La vegetazione è costituita in prevalenza da boschi misti con prevalenza di quercia, da boschi puri di lecci e nelle zone più elevate di faggi. I Martani sono ricchi di grotte, doline e inghiottitoi originati dall'erosione dell'acqua, tra cui l'esempio di maggiore interesse è rappresentato dal Fosso di Pozzale. La stessa acqua, a valle, alimenta numerose sorgenti, alcune delle quali molto rinomate, come la Sangemini, la Fabia, l'Amerino, la Sanfaustino e la Furapane.
I Monti Martani fanno parte dell'Appennino Umbro-Marchigiano, un'entità geomorfologica e litologica ben definita descrivibile come un sistema di pieghe e sovrascorrimenti disposti a formare un arco a convessità orientale.
Nelle aree sommitali affiorano i calcari micritici: si sono deposti in un ambiente di sedimentazione di tipo pelagico a partire dal Giurassico inferiore, ovvero da 190 milioni di anni or sono.
Lungo la dorsale si possono osservare interessanti morfotipi carsici, formatisi per l'azione corrosiva delle acque meteoriche sul calcare, come le doline, presenti diffusamente lungo la catena (Il Tifene, Corva di Mezzanelli, Pozzale, ecc.) ad occidente della stessa, e i piani carsici come quello di Casetta San Severo.
In prossimità della vetta del Monte Martano una forte antropizzazione ha modificato il paesaggio montano.
In questo luogo, infatti, ritenuto strategico per posizione, esposizione ed altitudine, sono stati ubicati un numero considerevole di ripetitori radio-televisivi e una base militare. Le pendici della dorsale sono in gran parte rivestite da boschi misti.
La strada consolare, (la prima tra le Viae Publicae romane verso il Nord) realizzata dal censore Caio Flaminio nel 220 a.C, collegava Roma ai porti dell’Adriatico ed all’Italia del nord,attraversando nel suo tracciato originario da Narnia a Mevania la fascia pedemontana occidentale dei Monti Martani; rappresentò fin verso il VI sec. d.C una delle arterie più frequentate dell’Italia centrale. La Consolare fu costruita sfruttando ed adattando percorsi precedenti, anche molto antichi, legati alla transumanza e agli spostamenti dei popoli Umbri. Fu proprio in un luogo a diciotto miglia romane da Narni localizzabile nel sito dell’attuale chiesa di Santa Maria in Pantano, che fu costruita dai romani, probabilmente coeva alla via, la statio ad Martis da cui si sviluppò, ben presto, un centro abitato: il Vicus Martis, solidamente attestato in molte delle iscrizioni romane qui rinvenute. Dal III sec. questo primo tracciato della Flaminia, nato come strada militare, iniziò a risentire della variante, realizzata per fini economici, che per Terni e Spoleto raggiungeva Forum Flaminii, (nei pressi dell’attuale Foligno) e si ricongiungeva al vecchio tracciato Narniae-Carsulae-Mevania. I due tracciati si biforcavano proprio all’inizio della catena dei Monti Martani (aggirandola ad est e ad ovest) dopodichè la Flaminia vetus lasciato il centro di Carsulae, del quale ne costituiva il cardo, raggiungeva, passando per la Statio ad Martis- stazione di cambio, il Vicus Martis, l’attuale Massa Martana. La vita e la prosperità del Vicus Martis furono strettamente legate alle sorti della Flaminia come dimostrano diversi resti epigrafici ed archeologici tra cui si segnalano due interessanti iscrizioni che ricordano importanti lavori di restauro della stessa via. La prima, oggi dispersa, si riferisce all’imperatore Antonino Pio, l’altra, conservata sotto l’arco della porta di Massa Martana, è dell’imperatore Adriano e fu trovata nei pressi della diruta chiesetta di San Giacomo, proprio lungo la via Flaminia.Dopo la caduta dell’Impero Romano, il tracciato occidentale della Flaminia fu abbandonato e decadde, ma la zona non rimase esclusa dal transito, (perché compresa tra il nuovo tracciato e la Via Amerina). Nel periodo altomedievale fu rilevante via di raccordo tra Roma e Ravenna e lo testimoniano i ruderi di Montecastro, probabilmente un tempio legato ad un culto umbro, poi diventato castrum in difesa della sottostante Via Flaminia. Molti sono i materiali di spoglio riutilizzati in tutta la zona, numerosi i colombari, rimasti a lungo sconosciuti e le chiese romaniche costruite sopra templi pagani dedicati agli dei Apollo, Cerere, Mercurio e Marte: proprio da quest’ultimo hanno preso nome i monti vicini e l’area circostante, ricca di frammenti di laterizi e ceramiche che continuamente vengono alla luce durante i lavori agricoli.
Con il termine Terre Arnolfe si designa una suddivisione storica dell'Umbria, localizzata prevalentemente sulle colline e sui monti Martani, nell’area tra Montecastrilli,Acquasparta, Avigliano Umbro. L'antica capitale era costituita dal paese di Cesi il nome deriva dai discendenti di Arnolfo che divennero vassalli della chiesa e feudatari di questo territorio, che prese quindi da loro il nome di Terre Arnolfe: queste terre infatti passarono dalla dominazione imperiale, sotto l’imperatore Enrico II, ultimo re di Germania, alla Chiesa. Papa Innocenzo III nel 1199, vi nominò anche il primo Rettore, il chierico Roberto Malvano, direttamente soggetto alla Sede Apostolica. Molti castelli del territorio martano, furono per un periodo sotto la giurisdizione delle Terre Arnolfe, per poi passare, in molti casi, sotto il dominio del ben più potente Comune di Todi.
Monte Castro è una delle vette occidentali della catena dei Monti Martani. Qui si può osservare una meraviglia naturalistica di questo territorio: I boschi di leccio dominano incontrastati i lati sud occidentali del rilievo mentre i lati esposti a nord-est sono ricoperti da una faggeta con esemplari anche secolari.
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Abbandonando la strada a scorrimento veloce si entra, quasi in punta di piedi, in una realtà rimasta indietro nel tempo. Immerso nel verde della vegetazione lussureggiante, poderoso e suggestivo, è il Ponte Fonnaia, del I sec. d.C., simbolo dell’antica Flaminia. Costruito per permettere alla Via Flaminia di attraversare il torrente Naja, fu realizzato in blocchi di travertino perfettamente squadrati ed ora si presenta nella veste assunta dopo i restauri d'epoca augustea (27 d.C.); è lungo 15 m, alto 8, con una sola arcata di 3,5 m a tutto sesto; presenta un intradosso obliquo per permettere alla strada soprastante di mantenere il suo asse geometrico. Sulla superficie interna dell’arcata i blocchi sono disposti in filari regolari, alternativamente per testa e per taglio, allo scopo di assicurare la migliore tenuta; i lati brevi dei singoli blocchi sono contrassegnati da lettere e numeri che indicano le sigle di cava. Da recenti analisi archeometriche (Vantaggi M., 2007) sui monumenti romani della zona si è notato che gli ingegneri romani prediligevano il travertino, (proveniente dalla limitrofa zona di S. Terenziano)..
Curiosità: I Romani usarono molto il travertino, in quanto facile sia da estrarre, sia da lavorare e resistente all’aggressione degli agenti atmosferici; questo materiale inoltre era visivamente gradevole e grazie al suo colore bianco latteo dava imponenza e maestosità alle opere, simulando il ben più prezioso marmo.
Il farnetto (Quercus frainetto Ten.) è un albero della famiglia delle Fagacee. Ha portamento maestoso che raggiunge i 25 m di altezza dopo una lentissima crescita. I giovani rami sono pelosi e la corteccia del tronco è grigio-bruno mentre negli esemplari adulti la corteccia è suddivisa in piccole squame rugose. Le foglie sono piuttosto lunghe (15/20 cm) e di un bel verde intenso. Le ghiande sono dolciastre, molto ricercate da ghiandaie e picchi.
La lignite, classificata nel commercio internazionale come Brown Coal, cioè carbone marrone, è un carbone “molto giovane”. Infatti, è composto da materiale organico, di origine vegetale, in corso di fossilizzazione in ambiente anaerobico, cioè privo di ossigeno. La lignite presente in Umbria si è formata in epoca plio-plestocenica; originato dalla crescita di piante lacustri sui resti delle preesistenti. In quel periodo, cioè da 5 a 1,7 milioni di anni fa, il Tevere non era ancora il fiume che conosciamo oggi e le acque del suo bacino si raccoglievano nel “lago Tiberino”. Nel quaternario, circa 1,7 milioni di anni fa, il lago formava la più vasta distesa d’acqua dell’Italia centrale; sul bacino che esso ha lasciato si trovano le principali miniere di lignite dell’Umbria. I depositi di questo lago sono formati da ciottoli e sabbie in alto e da argille in basso; tra queste, a livelli differenti, sono racchiusi banchi di lignite xiloide, in parte completamente legnosa, cioè costituita da tronchi di vegetali, e in parte torbacea scistosa, cioè formata essenzialmente dalle foglie delle stesse piante.
Il borgo di Torre Lorenzetta, fu centro fortificato importante dell’area martana, alle dipendenze della parrocchia di Villa San Faustino sino al 1806, quando fu aggregato a quella di Colpetrazzo. Anticamente era chiamato Poggio di S. Martino, e solo dal XV secolo prese il nome del proprietario Lorenzo di Giovanni Covitti, cambiando nome in Torre Lorenzetto. Il borgo, anche se in parte modificato dal punto di vista urbanistico, mantiene ancora alcuni edifici originali: poco fuori dal centro abitato è di notevole interesse la la piccola chiesa di San Sebastiano, risalente al XIII secolo, con graziosa abside. Ad una sola navata, ospita qualche affresco quattrocentesco di scuola locale: un San Sebastiano tra l'Annunciata e la Madonna col Bambino e l'Angelo Annunciante con San Fortunato. La chiesa ha subito gravi danni in seguito al terremoto del maggio del 1997, è stata però restaurata e mostra oggi l’antico fascino romanico.
Intorno alla chiesa di S.Maria in Pantano, realizzata nei secoli VII-VIII sfruttando un preesistente edificio romano del quale se ne conservano notevoli parti, si colloca il Vicus Martis Tudertium, attestato da numerose epigrafi provenienti da questa località e da identificare con la Statio ad Martis (stazione di posta) sulla Flaminia, ricordata nell’Itinerario dei vasi di Vicarello (I sec.), nell’Itinerario Antonino (II sec.) e nella Tabula Peutingeriana (V sec.); testimonianze certe della sua importanza per tutto il periodo imperiale; il vicus sorgeva presso una diramazione che collegava il percorso alla Via Amerina e quindi a Todi, costituendo un avamposto e uno scalo di Tuder sulla Flaminia, a cui infatti si richiama nel nome. Nonostante i numerosi indizi e ritrovamenti (da ricordare inoltre resti di un grande edificio a pianta rettangolare, con murature in opera quasi reticolata, inglobate nelle strutture della chiesa), l’area non è stata mai oggetto di indagini scientifiche. Nell’anno 2008, su concessione del Ministero dei Beni Culturali e sotto il controllo della Soprintendenza Archeologica dell’Umbria nella persona del dott. Paolo Bruschetti, sono iniziate le prime indagini, condotte da un gruppo di studenti americani della Drew University di Madison, New Jersey, guidati dal professor John Muccigrosso e coadiuvati dall’équipe di archeologi dell’impresa Intrageo di Todi. Le operazioni di scavo, hanno permesso di portare in luce una serie di edifici con un invidiabile stato di conservazione dei muri perimetrali, che dimostrano l’esistenza del vicus, (impianto abitativo, spesso di modesta entità situato intorno a snodi fondamentali di comunicazione) con dimensioni che coprono un’area di circa sette ettari. Curiosità:Da ricordare che le stazioni lungo le vie romane erano di tre tipi: le civitas, la mansiones e le mutationes: in queste ultime erano gli iunctores jumentarii per il cambio dei cavalli, e proprio nel vico Martano resta traccia di una rara epigrafe che documenta l’esistenza di un collegium jumentarii, corporazione destinata a questo importante servizio.